La mia formazione universitaria ha coinciso, per quanto riguarda la sua parte maggiormente significativa, con l’approfondimento della storia del pensiero liberale, filtrato attraverso la lettura di Croce, Gobetti, De Ruggiero, per citare solo alcuni degli autori più rilevanti.
Erano gli anni, più o meno tra il 1970 e il 1975, in cui l’Università di Roma, come peraltro molte altri atenei italiani, erano attraversati dalle inquietudini di cui si facevano portatori i movimenti di estrema sinistra, non estranei, in alcune loro componenti più radicali, alla tentazione della violenza e anche del terrorismo. Ad essi, da sinistra, rispondeva una cultura politica che, nelle sue componenti più avvertite, cercava di saldare i conti in modo serio con i vuoti teorici del marxismo e con il già evidente fallimento delle esperienze del comunismo storico.
Per chi, come me, guardava dall’esterno, ma con un forte senso di coinvolgimento e di partecipazione alla posta in gioco, risultava evidente che quei conti da saldare concernevano in maniera preminente il rapporto con la tradizione culturale e politica del liberalismo. In questa prospettiva improntai i miei studi, con il fondamentale appoggio di Antonio Jannazzo, allora assistente presso la Facoltà di Lettere della “Sapienza”, verso lo studio delle correnti del marxismo critico dei paesi del “blocco sovietico”, dalle quali emergeva la preoccupazione di aprire il marxismo all’apporto della liberal-democrazia. Particolare approfondimento ebbe l’esperienza teorica del marxismo ungherese e cecoslovacco, il primo con riferimento alla rivolta del 1956 e il secondo alla “primavera di Praga” del 1968. E di grande impatto fu l’incontro e la collaborazione con alcuni protagonisti di questi due eventi. Inseriti nelle attività dell’Istituto Gramsci di Roma e, pur in misura minore, di Bologna, dirigevamo la nostra attenzione verso la produzione teorica che le aveva precedute e accompagnate. Individuavamo in esse (specie in quella cecoslovacca) un passaggio d’importanza storica. Concerneva il radicale percorso di revisione del marxismo diretto verso una sostanziale fuoriuscita da ogni visione dogmatica e olistica a favore di una posizione che era caratterizzata dallo sforzo di individuare une mediazione efficace tra tradizione liberal-democratica ed esperienze della socialdemocrazia, alla luce di un marxismo inteso meno come sistema che come metodo di analisi filosofica e storica.
In questa fase sono nati i miei primi studi pubblicati in riviste e in case editrici interessate all’argomento. E si sono anche allargati i rapporti con esponenti dell’area liberale i cui esponenti gravitavano per vari motivi a Roma; rammento Luigi Compagna, Giuseppe Are, Giorgio La Malfa. In precedenza ero stato ammesso a frequentare i corsi della Fondazione “Cini” di Venezia, dove avevo seguito le lezioni di Nicola Matteucci, Paolo Stoppino ed altri che abitualmente fornivano il loro apporto a tale istituzione.
Non avevo mai abbandonato (semmai segregato in un angolo della mia vita e del mio studio) l’ambiente cattolico nel quale ero nato e nel quale ero stato educato per molti anni. Si era trattato di un’esperienza vissuta (fortunatamente, direi) senza mediazioni culturali specifiche; in essa aveva avuto un ruolo preminente la religiosità di mia nonna materna, colma di pietas, di amore infinito e di pacata malinconia. La mia fede, nell’età della fanciullezza, era spontanea, quasi un elemento “naturale” del contesto che mi circondava e della mia stessa vita personale. Poi progressivamente mi allontanai da tutto ciò e, mentre da un lato l’esistenza che conducevo diveniva sempre più indipendente dalla religione cristiana, dall’altro rinnovavo il legame con essa da un alto punto di vista, questa volta marcatamente intellettuale. L’interesse culturale, con il suo carattere troppo spesso astratto, cominciò ad avere la meglio sull’adesione del cuore. Fu il contesto nel quale, col tempo, iniziai a familiarizzarmi con i problemi teorici della filosofia politica di ispirazione cristiana e, in particolare, con il pensiero di Maritain, Mounier, Sturzo. Anche in questo caso l’impressione che ne ricevetti fu di una forte ambiguità nei confronti non solo e non tanto della modernità, ma soprattutto di quello che della modernità e in ambito politico è uno degli apporti decisivi, cioè il liberalismo. Verificavo, in ciò, un singolare parallelismo con la tradizione marxista ortodossa e toccavo con mano quella che mi appariva la questione comune che le due tradizioni di pensiero, marxista e cristiano-cattolica, avrebbero dovuto porsi e che invece si ponevano poco o niente: come recuperare tale ritardo e come valorizzare al massimo le componenti interne di queste due tradizioni che erano state maggiormente attente al rapporto con il liberalismo.
Da qui sono nati gli studi rivolti al personalismo politico, che dunque non erano espressione tanto di una proiezione, nella mia ricerca filosofica, di una fede intensamente vissuta sul piano della vita, quanto piuttosto la manifestazione di un interesse teorico rivolto alla concreta prassi storica del momento. Questo interesse era di contribuire al processo d’inserzione piena del cattolicesimo politico (o, più precisamente, della sua componente che si è autodefiniva “personalistica”) e delle forze culturali e politiche di matrice marxista nel quadro della cultura costituzionale su cui si fondava la convivenza nel nostro paese, che ancora era un paese di democrazia liberale e sociale.
Cercavo, così, di accompagnare il percorso politico che avrebbe dovuto portare al “compromesso storico”, nella convinzione che questo fosse il passaggio cruciale per realizzare una democrazia compiuta in Italia. L’intensa frequentazione degli ambienti in cui si andava svolgendo un intenso dibattito intorno a questi argomenti era parte integrante di un impegno teorico che, senza questi contatti e senza un lavoro comune con quanti nutrivano la stessa determinazione politico-culturale, non avrebbe avuto senso. Ebbi modo di collaborare così con molti studiosi. Ne ricordo qui solo alcuni: Alberto Monticone, che iniziai a frequentare nell’ultimo periodo della sua travagliata presidenza dell’Azione cattolica, Francesco Casavola, Leopoldo Elia, Rosaria Bindi, Pietro Scoppola, Padre Enrico di Rovasenda, Giorgio Campanini. Era evidente che ne dovesse nascere un lavoro filosofico fortemente intriso di interesse pratico-politico e poco “accademico”. I testi di questo periodo -che occupano la seconda metà degli ’70 e gli anni ’80- lo testimoniano. Lo sforzo di coniugare interesse teorico e interesse politico nel segno dell’“attualità” storica segna questi anni e dà un’impronta particolare alla ricerca che nel corso di essi ho svolto. I libri e gli articoli di questi anni si possono vedere nella parte dedicata alle pubblicazioni.
Fu questo anche il periodo in cui accettai di assumere alcuni incarichi nell’ambito di organismi dal “mondo cattolico”, come il Consiglio nazionale dell’Azione cattolica, il Consiglio scientifico dell’Istituto Bachelet, il ruolo di vice-presidente del Movimento ecclesiale di impegno culturale.
Mentre il fallimento dell’ipotesi del “compromesso storico” cominciava, con gli anni, a far sentire sempre più i suoi effetti negativi e mentre si assisteva al progressivo deterioramento del quadro politico del paese, potevo ripensare al senso, ai contenuti, alla direzione di marcia della mia attività. L’elemento più evidente era la mai compiuta sintesi tra fede e vita, l’impressione che avessi impegnato molti anni della mia esistenza, non solo lavorativa (intanto ero diventato, nel 1984, docente di Filosofia politica nell’Università di Perugia), in una condizione d’interna scissione, poiché solo raramente la fede aveva coinciso con la vita e più spesso invece le era rimasta quasi del tutto estranea. Si trattava peraltro di una fede che, più approfondivo, più diventava sofferta, attraversata da mille dubbi, incertezze, interrogativi irrisolti, ombre. Finirono così per coincidere due processi il cui esito fu convergente: il parziale allontanamento dall’impegno politico-culturale e il ripiegamento in me stesso alla ricerca di quella purezza della fede e di quella più generale coerenza interiore che non ero riuscito più a recuperare dopo l’infanzia. Sono stati anni con scarse esposizioni “in pubblico”, ma intensi, serrati, spesi in una chiarificazione dell’esistenza che è ancora in corso. Ne sono stato molto provato e porto i segni di questo cammino mai interrotto e mai giunto in porto.
Anche in questo periodo ho inteso -nel modo più deciso possibile- fare vita dello studio, cioè studiare per capire sempre meglio me stesso, la mia esistenza, le mie contraddizioni, la mia inquietudine perenne, quell’epochè costante nella quale sembra che io sia destinato a restare. Intendo con il termine sospensione l’incapacità di risolvere in modo soddisfacente i tanti interrogativi che da tanto tempo mi pongo e che ho consegnato a scritti occasionali e frammentari conservati nel mio computer e in quaderni sparsi. Questo scrivere così disordinato e inorganico è stato però un’ancora gettata in un mare nel quale, in pieno naufragio, non mi sarebbe rimasto altro che aggrapparmi alle onde, secondo una felice immagine di Karl Löwith.
Gli autori, i periodi storici, le questioni che ho scelto di fare oggetto di studio in questo lungo periodo sono stati scelti perché erano quelli che più mi pareva potessero aiutarmi a comprendere la mia condizione. Così, almeno un elemento caratterizza questo periodo e lo accomuna a quello precedente: l’intenzione assolutamente non “accademica” di questi lavori. Non nel senso che in essi non abbia cercato di seguire le regole del rigore scientifico (molto più che in quelli precedenti), ma nel senso che non vi si esprimeva un interesse puramente (né in prima istanza) “professionale”, quanto piuttosto un interesse esistenziale, nel senso non retorico e gergale del termine. Montaigne, Charron, La Mothe le Vayer, Pascal, Rousseau, Nietzsche, Camus, hanno segnato questa fase del mio lavoro di ricerca, in cui ho voluto che trasparisse, almeno tra le righe, il percorso di un’interiorità che cerca la sua via e che al contempo si confessa riflettendosi, se così si può dire, in itinerari di vita e in percorsi teorici di filosofi e scrittori nei quali mi è parso di trovare elementi utili per la comprensione di quel mistero che, comunque, resto tutt’ora a me stesso.
In questa impostazione della mia attività va ricercato il motivo per cui non ho mai inteso essere “professionista” o “specialista” di questo o quell’altro filosofo e per cui son passato attraverso l’esame di un cospicuo numero di autori, senza preoccuparmi talvolta di esaurirli ma accontentandomi di prendere quello che mi sembrava più utile per chiarire me a me stesso. Mi ha perciò guidato una “vocazione” intesa in un senso molto diverso da quello weberiano: non specialismo, ma sondaggio dell’anima e nell’anima. Il rigore metodologico è stato il mezzo con cui ho cercato di rendere questo sondaggio meno gratuito possibile, ma non è stato mai il fine. Chi sia interessato alle pubblicazioni di questo periodo può vederle a parte.
Quanto ho pubblicato su altri temi e argomenti mi appare, adesso, meno significativo, anche se può avere un’utilità all’esterno, come il manuale di filosofia politica edito da La Scuola di Brescia, l’introduzione a Rousseau e il pamphlet sul concetto di “popolo” ospitati dalla stessa casa editrice. Sullo stesso piano collocherei le tre riviste in cui ho incarichi direttivi: la Rivista della Società italiana di Filosofia politica (www.sifp.it), con Vincenzo Sorrentino “Cosmopolis” (www.cosmopolisonline.it) e Dialoghi (rivistadialoghi.it).
Rimarrebbero da esplicitare, per quel che si può, i contenuti di questo laborioso “diario dell’anima” che è costituito dalla maggior parte dei miei libri e articoli. Ma questo può e deve farlo solo il loro esame, che ogni lettore giudicherà secondo il suo metro di misura.