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Jean-Jacques Rousseau

Il contratto sociale

a cura di Roberto Gatti

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J.-J. ROUSSEAU, Il Contratto sociale,
a cura di Roberto Gatti, Milano, Rizzoli, 2005

 

PRESENTAZIONE
di Roberto Gatti

Dalle catene alla libertà

L’esordio del capitolo I del Contrat social contiene due constatazioni di fatto e un’indicazione normativa: entrambe ne indirizzano tutto il percorso successivo. Quelli che, per Rousseau, costituiscono i due fatti incontestabili sono che “l’uomo è nato libero” e che “ovunque si trova in catene”. L’aspetto normativo è invece espresso nella dichiarazione secondo cui il problema consiste nell’individuare un principio che possa fondare in maniera “legittima” l’associazione politica, cioè non in base alla “forza”, ma al diritto (Du contrat social, libro I, cap.1).

Come gli uomini fossero finiti “in catene” Rousseau l’aveva spiegato nel Discours sur les origines et les fondaments de l’inégalité (1755), illustrando il lungo e travagliato cammino che aveva condotto la specie umana, attraverso molteplici trasformazioni storiche, dallo “stato di natura” all’istituzione del contratto iniquo. Si tratta di quel contratto in cui - dopo il cruciale passaggio consistente nella “grande rivoluzione” da cui nacquero “la metallurgia e l’agricoltura”, inestricabilmente connesse con la divisione del lavoro e con la proprietà - viene istituzionalizzata la disuguaglianza e legalizzato il dominio del “ricco”, che trasforma l’“abile usurpazione” attraverso cui si erano creati i primi possessi in “un diritto irrevocabile”.

Già con questo dualismo - basato sulla contrapposizione tra un contratto storico che è la sanzione legale del “diritto precario e abusivo” impostosi nella “société naissante”, da un lato, e, dall’altro, un contratto legittimo prodotto di una ragione impegnata a ricercare i fondamenti della “société bien ordonné” - emerge la differenza tra il contrattualismo di Rousseau e quello della “science politique” sei e settecentesca. Negli autori maggiormente rappresentativi di quest’ultima la struttura argomentativa è chiaramente monistica: il contratto serve a mostrare come sia possibile rendere ragione del passaggio da una condizione incerta e precaria a una “società civile” che realizzi l’unità delle sue componenti garantendo le condizioni basilari della convivenza ordinata. Il procedimento è puramente logico-astrattivo, condotto more geometrico; se riferimento alla storia c’è, ha lo scopo di suffragare con esempi tratti dalla realtà concreta la plausibilità di un ragionamento che trae però la sua forza decisiva dalla logica interna che lo connota e non certo, almeno in prima istanza, dalle circostanze storiche cui può appellarsi. In Rousseau invece la riflessione sul contratto sociale legittimo implica l’assunzione preliminare di un contratto storico che ne costituisce l’antitesi - cioè di un contratto segnato, quanto alle origini e quanto al contenuto, da una radicale illegittimità, in quanto viola il “diritto naturale” - e a partire dal quale i “principi del diritto politico” si definiscono nel loro pieno significato, che altrimenti va perduto. E va perduto innanzitutto perché proprio il raffronto tra il contratto ingiusto e quello secondo giustizia permette di far emergere la chiave interpretativa generale che dà senso pieno e compiuto alla struttura dicotomica del contrattualismo rousseauiano (contratto storico, che legalizza illibertà e disuguaglianza, versus contratto razionale, che deve garantire libertà e uguaglianza [Du contrat social, libro II, cap.11]). Questa chiave interpretativa sta nell’idea dell’ambivalenza della storia umana in quanto storia della libertà.

Il passo forse più rivelativo a questo riguardo è contenuto nel capitolo 8 del libro I del Contrat social. Il processo che conduce dallo “stato di natura” allo “stato civile” - scrive Rousseau - è di portata tale da produrre nell’uomo “un cambiamento di grande rilievo, sostituendo nella sua condotta la giustizia all'istinto” e conferendo alle azioni umane quel “contenuto morale che loro prima mancava”. Infatti solo con questo passaggio ”la voce del dovere” può subentrare all’“impulso fisico e il diritto al desiderio”, mentre si impara “a interpellare la ragione prima di prestare ascolto alle inclinazioni”. Ogni essere umano perciò “dovrebbe benedire continuamente il momento felice in cui fu strappato per sempre [dallo stato di natura] e che trasformò un animale stupido e ottuso in un essere intelligente e in un uomo”. Ma questo senza mai dimenticare - come Rousseau stesso aveva mostrato nel Discours sur les sciences et les arts e nel Discours sur l’inégalité - che “gli abusi di questa nuova condizione” hanno degradato spesso gli uomini al di sotto della condizione originaria dalla quale erano usciti (Du contrat social, libro I, cap.8).

Se la storia si è sviluppata prevalentemente nel segno della civilizzazione corrotta, se in essa hanno cioè dominato il conflitto e la disuguaglianza, se si è imposto quel contrasto tra l’essere e il sembrare che fa della società il regno delle maschere e trasforma anche le “scienze” e le “arti” in strumenti dell’apparire, l’alternativa rimane comunque possibile, poiché appunto tutto ciò è dipeso dal “cattivo uso” che l’uomo, essere “perfettibile” e “libero”, ha fatto delle sue facoltà nel corso del divenire storico. Tra natura e cultura si è creato un abisso che spiega perché, nei momenti più tragici e difficili della vicenda storica, si possa arrivare a guardare con nostalgia la stato originario dal quale l’uomo si è ormai per sempre distaccato: quello stato infatti, pur nella sua rozzezza preumana, può offrire ancora l’immagine consolante di una condizione priva delle lacerazioni che segnano la storia. Ma la consapevolezza della frattura tra natura e cultura non inchioda l’uomo a un destino senza speranza; schiude piuttosto di fronte alla ragione la prospettiva, certamente valida per un futuro che sta all’uomo stesso preparare, di una conciliazione tra i due termini. Non c’è dubbio che, se si considera questo aspetto come essenziale per la comprensione dell’intero pensiero di Rousseau, è pienamente legittimo sostenere che Kant ha fornito una chiave interpretativa fondamentale della filosofia politica dell’autore del Contratto sociale. Le “tanto spesso fraintese affermazioni apparentemente contraddittorie del famoso J.-J. Rousseau” - come egli notoriamente sottolinea - possono “essere messe in accordo, tra di loro e con la ragione” se si tiene conto che nei “suoi scritti Sull’influsso delle scienze e Sulla disuguaglianza tra gli uomini egli mostra a perfezione l’inevitabile conflitto della cultura con la natura del genere umano, come genere fisico, nel quale ogni individuo dovrebbe raggiungere pienamente la sua destinazione; ma nel suo Emilio, nel suo Contratto sociale e in altri scritti egli cerca di risolvere il più difficile problema di come debba progredire la cultura perché le disposizioni dell’umanità come genere morale si sviluppino conformemente alla loro destinazione, in modo che il genere morale non si opponga al genere fisico in quanto genere naturale”.

Il Contrat social, stilizzando i contorni della “società ben ordinata”, indica il possibile buon uso della libertà nell’ambito della politica. E ciò avviene non entro un spazio defattualizzato nel quale opera unicamente una ragione priva di concretezza storica, come avviene di regola nel giusnaturalismo moderno, ma ponendo al centro della riflessione quelli che appaiono gli inseparabili elementi portanti della riflessione sull’ordine politico secondo giustizia.



Rousseau e noi: modelli di democrazia

Perché questa sottolineatura non rimanga troppo astratta accenno a un percorso di riflessione possibile, in cui convergono il tema del “repubblicanesimo” e quello della “democrazia deliberativa”, centrali nel confronto in atto nella filosofia pubblica contemporanea.

Com’è noto, Jürgen Habermas ha distinto tre “modelli normativi di democrazia”:
a) Quello “liberale”, in cui il processo democratico “serve a programmare lo stato nell’interesse della società, laddove per stato s’intende l’apparato dell’amministrazione pubblica, per società il sistema di commercio degli individui privati strutturato dall’economia di mercato”.
b) Quello “repubblicano”, in cui “la politica non si esaurisce in questa funzione di intermediazione, ma diventa costitutiva dell’intero processo di socializzazione”, finendo per rappresentare “il medium attraverso cui gli individui - organicamente inseriti in comunità naturalisticamente solidali e consapevoli - perfezionano e sviluppano [...] i rapporti ereditati di riconoscimento reciproco”.
c) Quello che si basa sulle “condizioni comunicative entro cui il processo politico può presumere [...] di produrre risultati razionali”. Questo terzo modello, ispirato alla “teoria del discorso” e connotato in senso rigorosamente proceduralistico, demarca una netta distanza da quello “liberale” e nasce in accordo con il “repubblicanesimo” nella misura in cui quest’ultimo “porta in primo piano il processo politico di formazione dell’opinione e della volontà”, ma se ne distacca nel momento in cui “non fa dipendere l’attuazione di una politica deliberativa da una supposta capacità della cittadinanza di agire unanimemente, bensì dalla istituzionalizzazione di procedure adatte”, rigettando così il concetto di “totalità sociale” e restringendo la “sovranità popolare” a “procedura”. Benché Habermas si riferisca, più direttamente, alle versioni attuali del repubblicanesimo, non c’è dubbio che il resoconto che offre di esso, nella parte in cui lo sottopone a critica, evidenzia quella che si potrebbe definire l’eredità rousseauiana che rimane alle spalle di questa posizione.

Mi pare, se ciò è vero, che, sulla base di quanto sin qui detto a proposito di Rousseau, tre questioni possano essere, pur schematicamente, poste:
a) Fino a che punto l’interpretazione che Habermas propone del “repubblicanesimo” come teoria politica incentrata su un’idea organicistica, unanimistica e totalizzante della democrazia sia accettabile senza precisi e netti distinguo; se si ritiene plausibile la linea suggerita in questa Introduzione per la lettura del Contratto sociale, è evidente che Rousseau e un considerevole filone che si diparte dal suo pensiero non sono collocabili entro l’angolatura interpretativa habermasiana del repubblicanesimo.
b) Se la sovranità popolare come “procedura” (cioè il terzo modello proposto da Habermas) possa essere veramente pensata in modo rigoroso o piuttosto non si basi sull’assunzione di principi e valori senza i quali mancherebbe del suo fondamento. In altri termini, se sia possibile, teoreticamente, che la “ragione pratica si ritir[i] dagli universali diritti dell’uomo”, oltre che “dall’eticità concreta di una data comunità” (insomma le dimensioni universalistica e contestualistica che ho cercato di evidenziare nella trama della riflessione rousseuiana), confinandosi nella dimensione, apparentemente salvaguardata dalle ipoteche di concezioni sostanzialistiche dell’ordine politico, delle “regole discorsive” e delle “forme argomentative” connesse unicamente alla “comunicazione linguistica” e depurate da ogni residuo di “filosofia della coscienza”.
c) Se infine - ammesso naturalmente che la perplessità appena sollevata sia condivisibile - il riferimento al Contratto sociale non debba essere considerato, nell’ambito del dibattito in merito ai temi discussi da Habermas, un passaggio importante per l’articolazione di una teoria democratica deliberativa che, anche di fronte ai problemi posti dall’attuale pluralismo culturale, non si rassegni a indicare altra soluzione se non quella consistente nella radicale riduzione di significato e di portata del principio della sovranità popolare, effetto inevitabile dell’estenuazione formalistica cui tale principio viene sottoposto nella versione habermasiana. È evidente che quest’ultimo punto costituisce (non certo con riferimento solo a Habermas, ma a un orientamento generale e internamente quanto mai articolato della filosofia politica contemporanea) il punto decisivo nella prospettiva di una teoria democratica che, fedele alla “tradizione civica umanistica”, non si rassegni a separare definitivamente i presupposti antropologico-filosofici e morali dalle questioni attinenti la struttura istituzionale e procedurale della “società ben ordinata”. È altresì evidente che tale indicazione di carattere generale resta valida anche al di là del richiamo, tanto difficilmente evitabile di diritto quanto frequentemente eluso di fatto, a Rousseau.